Maria Antonietta Viero “La padrona delle oche”

La padrona delle oche di Maria Antonietta Viero è un asterisco lanciato da una costellazione che richiede l’analisi, la lettura e talvolta la restituzione in altro enigma. Nell’adiacenza insistono più costellazioni e gli elementi si espongono alla combinazione e alla combinatoria. Padrona, da pater, patronus, patrono. Donna-padre? Protettrice delle libertine e delle clienti? Patrono divenne poi il signore rispetto ai servi, ai contadini, sino a designare “Chi ha piena facoltà di fare quel che gli piace”. E cosa piace al padrone? Cosa piace alla padrona? Le oche?

Ai padroni piace il nulla e alle oche piace la morte? I servi delle oche preparano il foie-gras per i padroni e per le padrone?  La padrona delle oche le mangia, le vende?

La padrona delle oche: irrisione, satira, beffa. La padrona delle oche è la padrona del niente da vedere. Le oche sono offerte in palio affinché niente sia visibile nell’impalcatura del sistema padronale e matricida del potere. Mentre ognuno si esercita militarmente (per odio) e religiosamente (per amore), Maria Antonietta Viero si diletta narrando all’insegna della padrona delle oche. I padroni della finanza, degli eserciti (l’Innominabile nella Torà è anche chiamato per approssimazione il Signore degli eserciti), del digitale danzano e ballano con la morte in piena euforia dal volto disforico delle vittime del pericolo dell’Altro.

La padrona delle oche non è padrona e nemmeno aspira alla padronanza del blocco mondiale e della colla che tiene uniti i popoli disgiunti. La padrona delle oche non è padrona della gomma e dei suoi muri, ossia dell’unione fra il blocco padronale e la colla servile. “Padrona delle oche” è un teorema che affigge l’inesistenza della padronanza. Chi è la padrona delle oche? Ciascuna donna che non immagina e non crede nelle oche, nel loro giro, nella loro estesa cerchia degli animali da cerimonia. La padrona delle oche è la cittadina, non è la lupa delle oche. Non è la lupa di nessuno.

Tra virgolette? Il discorso ideale è fra virgolette. Le virgolette indicano non l’esattezza della citazione ma l’esigenza di scrittura dell’esperienza, negata dall’ideale. La citazione convoca all’analisi: alla teorematica di quel che non è mai accaduto e all’assiomatica di quel che accade. “Maestro, disegnami una foglia”: è convocato un maestro che non ha ancora disegnato una foglia”, e per forza: la foglia non è disegnabile. Il disegno non è disegnabile. È convocato il maestro senza maestria. Il magister delle oche nel sistema penale e penitenziario. Se le padrone delle oche sono cittadine, i padroni delle oche scherzano sul fuoco de «l’oca in onto coi fasoi».

Perché l’alinguistica di Maria Antonietta Viero è anomala, dissidente, blasfema? Apparentemente convoca per revocare la convocazione. Ma quale cum vocis? Non c’è la comunanza della voce, la condivisione ricercata dai fratti del potere frattale e di sfratto. Perché il maestro non è maestro? Perché il lettore non è il lettore? Perché ognuno insegue il significato e nella sua botte di ferro ha già capito tutto? Lo affigge in ogni suo esergo, in ogni sua prefazione e in ogni sua postfazione, in modo che il fatto sostituisca il fare e l’affaire Viero sia classificato, chiuso.

La lingua di Maria Antonietta Viero non è una lingua ermetica, misterica, mistica, enigmatica: è la lingua della sua esperienza, la lingua che dissipa l’arcaismo, che fra il pettegolezzo e il meta linguaggio è appannaggio di ogni suo lettore, sia animale liturgico sia animale cerimoniale. Con La padrona delle oche non siamo convocati nel manuale di zoologia fantastico. Siamo nella via narrativa di Maria Antonietta Viero e quindi nessun elemento è fisso, immobile, centrale, bianco o nero.

Leggiamo nella donazione della sua pagina.

“Maestro, disegnami una foglia.

Fammi seguire il tratto del debutto

Sino all’inseguire quell’altro

tratto interno alla foglia

che quasi la divide

e rifà il canto del calco

e poi, su quel tratto,

ritrovare i rami e riprendere

il disegno che dice dell’albero

di cui il ramo vive”.

 

Al “maestro”: “Fammi seguire il tratto del debutto”. Dinanzi al fatto arcaico il maestro è ibrido, se non arcaico. Il debutto ha il tratto come condizione (distrazione, sottrazione, astrazione), ma non c’è il tratto del debutto, il tratto del tempo: la traccia non è mnestica. Non c’è continuità fra il seguire il tratto e inseguire l’altro tratto. Il tratto non è temporale: “il tratto interno alla foglia che quasi divide…” Il tratto non divide: il tratto è individuo. “Quasi” è l’asterisco dell’adiacenza e della costellazione. Il “quasi” è la vita inderogabile: è la vita la cui scrittura dell’esperienza è la poesia di Maria Antonietta.

Non ci sono i due tratti, come in Martin Heidegger non ci sono i due inizi. Il tratto non è doppio, non è dicotomico. L’altro tratto rifà il canto del calco? Il calco è l’arcaismo? Il ricalco è il doppio del calco. Il pleonasmo non avvolge il calco, che unificherebbe i due tratti nel tratto unario, l’altra faccia del tratto totalitario. Il tratto dei dominatori e degli imperatori. Con La padrona delle oche siamo lontanissimi da questo tratto. Il “quasi” non è toglibile. Quasi il canto del calco, quasi il canto, quasi il calco. Quasi seguire l’esterno e inseguire l’interno. I rami dell’albero della vita non sono perduti: come ritrovarli? Come riprendere il disegno? Impossibile. Il disegno che dice è il disegno ideale. Idealmente il disegno dice dell’albero di cui il ramo vive. È l’albero della narrazione? Perché l’albero della vita dovrebbe dirsi come sorgente dei suoi rami? Sono rami genealogici. Nessun calco della vita, nessuna copia della vita, nessuna sostituzione della vita. Il fare è senza rifacimenti. I rami non sono nascosti, non sono latenti, non sono misterici.

Il ramo che vive è il ramo vivente-morto. Per il ramo non c’è l’alternativa fra vivere e morire. Il ramo della vita è il ramo nell’onda dove, mai, il vento smette di soffiare.   

Chi chiede alla guida di disegnarli una foglia non immagina e non crede nei maestri. La parodia non distribuisce certificati ai doganieri della cultura, fra calcati e ricalcati. Il disegno originario sfata il calco, nonché il suo canto.

Eccoci al pater, a pagina 17, “Padre”.

“Padre mio, che sei nei cieli,

donne-moi un petit morceau de père au jour”.

« Padre mio, che sei nei cieli ,

dammi oggi il mio pane quotidiano…”

Padre, datti a me come pane un pezzettino al giorno.

(…)

Il Padre, come indice, sta nel paradiso quale regione del cielo. Il padre giornaliero in bocconi è il genitore arcaico. Il padre come pane quotidiano è il padre nel cannibalismo. L’arcaismo è la festa senza la parola. Il pane spezzettato è il pane negato: nessuna somma di pezzettini lo restituisce. È il padre “in quell’idea che sapòra di vita finita”. È il padre arcaico che nella teorematica poetica di Maria Antonietta Viero si dissipa quale fantasma del modello originale che non è mai esistito, poiché il padre nell’atto è l’indice della funzione di zero, che non ammette zeroficazione dell’indice. Il modo della sua poesia è quello di affiggere nella narrazione l’enunciato nei suoi fantasmi, senza attribuzioni di realtà a una parte, bollando d’irrealtà l’altra parte. Non c’è l’esigenza di togliere il malinteso, quasi che il lettore nella sua pagina abbia da compiere quel che è già dato come “calco”.

Non c’è soluzione nella poesia: ironia quella di una “pagina annotata in simpatico inchiostro”. La traccia delebile è della famiglia genealogica e della tribù gerarchica.  La famiglia originaria (senza origine) in Maria Antonietta Viero è la traccia da cui procede per integrazione il suo viaggio e la sua scrittura, la sua lingua inimitabile, i suoi approdi là dove non c’è più nessun piano da calcare o da ricalcare. L’alingua del suo gerundio non ha precursori e “le lettere chiedono udienza”.

È un laboratorio la poesia di Maria Antonietta Viero, dove un rigo vale un palinsesto di strati  infiniti. Sempre dal poema-libro “Padre”:

Non con i vivi,

non con i morti

 

Nessuna schiera dei viventi, nessuna schiera dei morti. Inassumibile la vita, inassumibile la morte, poiché i vivi sono viventi-morti e i morti sono morti-viventi. Nessun principio di uguale fra la vita e la morte: inappetibile il cannibalismo dei vivi e il cannibalismo dei morti, né biofagia né necrofagia. Nessuno è convocato al mercimonio cannibale della poesia in dose di monocibo comune ultimo.

Come nasce ciascuna volta la poesia di Maria Antonietta Viero?

Un sussulto,

la corteccia si apre, si squarcia lasciando ferito il segno

e un vagito percuote come scure su roccia l’aria,

come umido soffio di narici del toro

costretto nel cerchio alla bruta.

 

“Come fare, a intendere il pane della vita?” La frase è già fra virgolette nel testo. Nessuno sa come fare se non facendo, senza togliere idealmente il malinteso e la madre che è il suo indice. Facendo, poetando: più nessuna madre dolorosa, più nessun figlio incerto che si appenda all’albero genealogico del fatto che non è mai esistito.

Il pane della vita, “dopo” cinquant’anni di cucina, serba ancora e ancora il suo enigma. E fra il pane di Mosè e il pane di Gesù la suggestione è che l’acqua dell’impasto si trovi nella poesia di Maria Antonietta Viero, che dedica due poesie all’acqua: “Acqua sorgiva” e “Acqua e incognita terra”.

 

Maria Antonietta Viero, La padrona delle oche, Arsenio Edizioni, 2023, € 12,00, pp. 104

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