Lorenzo Spurio : Tra gli aranci e la menta

Lorenzo Spurio : Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca

PoetiKanten Edizioni, 2020 (II edizione)

Prefazione di Nazario Pardini

 

 

     Da qualche tempo c’è, fra i miei libri, quello che con termine latino diciamo libellus accordando alla traduzione italiana “libello”, il senso originario della parola, che consta sia dell’immagine di libro di piccolo formato – un libriccino, un taccuino –, sia della natura intrinseca e del valore degli scritti contenuti, la loro pregnanza non solo temporale, memoriale, ma principalmente immaginale, creativa, sentimentale, culturale. In sostanza: un’opera accurata, gentile; una finezza del pensiero che considera la forma non meno del contenuto, secondo quanto intendeva Catullo nella dedica all’amico Cornelio Nepote. È questa ricercatezza il caso della raccolta di Lorenzo Spurio Tra gli aranci e la menta . Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca: il poeta di Jesi, nella nota introduttiva Saluto ad un amico (Il mio giardino autunnale) preannuncia, in un linguaggio dalle immagini soavemente simboliche e pervase di appassionata adesione – vibrante specchiatura che con cifra panica esprime l’affezione ammirata per il grande autore spagnolo – le poesie dedicate all’esistenza dell’alta figura umana e intellettuale di Federico García Lorca, e l’accadere tragico del mondo entro i giorni del poeta.

 

     Qui, però, siamo davanti non a raffinate nugae, ma a versi che si strutturano in modalità poematica, poiché le tredici composizioni si modulano secondo un paradigma scenografico che pone in essere i topoi del poeta granadino assecondando il privilegio del lessico alto, talora aulico e inventivo che immette a un versificare impressivo, sonoro, musicale, accogliente nel piano ontologico la natura «viola acceso / che tinge il bianco estasiante /nella magnolia», «la vita che urge», e ogni altro corollario, compresi il bene luminescente di «un sorriso di gigli freschi» e la maleficenza del «Demonio sceso in terra», «Il ricordatorio della violenza»: la luce resta altissima nello squarcio metafisico che l’oscurità procura ricadendo maligna; «Le piante d’aria e gli abbracci filamentosi / si premurano d’occultarmi le orecchie dal / maldestro scampanio della collegiata» come una benedizione, o un segno taumaturgico su colui che giace in odore di purezza d’intelletto.

 

     La partecipazione pressoché assoluta di Lorenzo Spurio all’emanazione vibrazionale del poeta andaluso, il simbolismo di esseri botanici – basti pensare al fiore di nardo nell’immagine «coperte di nardi», a rose, felci, ciclamini, cardo,…; ai tanti nomi arborei sostanziati in magnolia, acero, cipressi, ulivo, pioppo,…– come in una cantica di sentimento devozionale, palesano ciò che Novalis nel romanzo filosofico I discepoli di Sais  individua come l’esistenza di una scrittura cifrata: presente in tutte le cose, le pone in connessione, le intreccia secondo modi affini allo sguardo teso a vie di verità. È lecito allora pensare che ciò accada anche per la scrittura poetica, per i suoi officianti poeti, secondo quanto il saggista Roberto Taioli illustra in Estetica e sacro in Cristina Campo:

 

«Questa scrittura è congiunta a due mondi (la syllàpsis, di cui parla Eraclito nel Fr. 19), quello che le è sotterraneo e di cui governa la connessione, e quello esteriore che emerge alla superficie e si dà a noi nel sensibile. Ma dobbiamo avvicinarci al nodo di questa congiunzione, saggiare l’intimo nesso che salda insieme, pur nel loro diversificarsi, il sotto e il sopra, la zona d’ombra e la zona di luce che sono installate in ogni cosa. La lingua della fiaba (e per estensione della poesia) dispone di questo doppio gettito, di questa duplice e complementare natura che Cristina Campo ha intuito. Questa lingua è come una chiave, sa discendere nel più profondo dell’abisso ed ergersi al contempo verso il nitore del cielo. Compartecipe di questi due destini, di due istinti profondi, di due forze antitetiche, l’una centripeta, l’altra centrifuga.»

 

Alla luce di questi dettagli è chiaro che Lorenzo Spurio, per quelle ineludibili chiamate alla verità della poesia, accede laddove il «riverso nella melma» si erge in tutta la maestà della sua essenza di poeta: ne accoglie la voce, la introietta ritualmente nella «luce che torna» restituendone le altezze risonanti di simbolismi rigogliosi, la filigrana di lirismo pulsante «macchie di bagliore / nell’oro fuso e pesante»: accade lo splendore dell’incontro metamorfico che abbatte la barriera della separazione, riunisce i prossimi lontani nel tempo in un eterno presente.

Luino, 15 Ottobre 2023

Invoco la luce (Finestre serrate)

 

Ode al riverso nella melma

melegrane incarnate

come efelidi divampanti.

Tra i pioppi non trovi che umido,

follia dei rancori nei paesaggi,

i pagliericci non scoppiano più

la terra è arsa di sangue.

Può succedere nella notte

che un canto sgraziato

minacci la luna

allora le ortiche intervengono

per corteggiarla in fasci d’oro.

Quando ritorna l’azzurro?

Ci vuole un giro di buio

mentre i ciclamini bisbigliano

e le vespe riposano in origami

che riempiono vasche di luce.

Le molecole sono elastici d’illusione

se solo il vento tinteggiasse i muri

la città diverrebbe conca di bagliori,

ma stasera la lotta all’oblio

apre e serra finestre senza pace.

Così invoco la luce che torna

tra un periplo goffo

e il canto del gallo.

 

Coltivo il suono che s’impadronisce

 

Ho parlato con te più volte,

adocchiato il tuo sguardo d’aria.

Avrei colto le pagliuzze

che il vento caldo porta e

fa vorticare in peripli insensati.

Lucciole dei tuoi occhi disfatti.

Nella campagna fluisce un sangue

che rimbomba ancora in queste ore.

Ho adornato i fianchi del mondo

con cortecce di pioppo e intarsi di petali,

scovo la vista rettilinea di occhi

che vangano nel profondo e

piantumano rivincita.

So che la luce a volte si scansa

perché l’ombra è più forte

e le serra i contorni.

Tu che nell’acqua respiri

tra i gorghi che chiamano

mentre, ancora, la terra tace.

Io dico che è un rifiuto di vergogna,

anche se le immagini stingono

e la deformano, c’è un urlo di roccia

che imperversa e non ha sbocco.

Vorrei stendere coperte di nardi

a limitare i giunchi impalati e residui

attorno alla tua poltrona pervinca.

La polvere che si forma non è

di terra che sfiata, né di vecchio:

solo ragione che si scaglia e fa trucioli.

Sono ancora qui che sollevo

quell’urlo atroce che non si sente.

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