Stelio Mattioni e il sosia

Come andare da A a B? Se lo chiedono le dottrine teologiche, le dottrine religiose, le dottrine militari, le dottrine misteriche, le dottrine sociali, le dottrine delle scienze umane, le dottrine delle scienze “dure” come la matematica, l’algebra, la geometria, la topologia. Ebbene qualcuno si risveglia adulto e si trova ad A.., senza sapere dove. Così la voce narrante del senza nome, del senza memoria. E non solo andrà a B., ma anche a C., sino ad arrivare a Z., senza che fosse previsto. Metà della sua vita senza memoria e l’altra metà con la memoria degli altri. Ecco Di sé con gli altri di Stelio Mattioni, scritto nel 1996 e rimasto inedito, fra altri inediti, dopo la sua morte nel 1997. Dobbiamo a Chiara Mattioni, la figlia di Stelio, il lavoro d’archivio, di ricerca, di redazione, di cura fine ed elegante di ciascun libro inedito del padre. Postumi sono usciti: Tululù (Adelphi, 2002), Memorie di un fumatore (MGS Press, 2009), Dolodi (Zandonai, 2010), Interni con figure (EUT, 2011).

Stelio Mattioni, nato a Trieste nel 1921, ha esordito con una plaquette in versi, La città perduta (Schwarz, 1956) e dopo l’incontro con Bobi Bazlen, che da subito lo apprezza, pubblica il volume di racconti, Il sosia, (Einaudi, 1962). In conclusione dell’articolo mettiamo la bibliografia di Stelio Mattioni. Interessa qui particolarmente Il sosia, perché Di sé con gli altri rilancia ancora e ancora il palinsesto di storie infinite de Il sosia, che si dipanano proprio in più romanzi.

Di sé con gli altri è la ballata della riproduzione del sé quale copia dell’altro, il più Altro, l’Unico, l’autocrate. E gli altri sono i riproduttori economici del grande Altro, prossimo alla sincope del suo dissolvimento, apparentemente per età.

Il senza nome avrà anche un nome, Giorgio Di Giorgio, ma glielo appioppa Annina, la “matta” del paese che lo accoglie provvisoriamente, che è già giunto nel mezzo del cammin della sua vita. Giorgio è l’ognuno, è il sosia universale. Ognuno potrebbe esserlo. «La storia è una metafora della condizione umana», scrive Maria Mattioni nella postfazione. Non c’è chi non possa essere questionato dal romanzo di Stelio Mattioni. Anche gli insegnanti di Giorgio, a partire da Annina, sono come lui fatti fugacemente, non solo come i burocrati di Franz Kafka.

Certo, è come dirigente d’azienda che Stelio Mattioni lavora e elabora la vita a Trieste. Oltre il passaggio dagli uomini illustri ai miserabili di Victor Hugo, oltre l’agrimensore e i suoi aiutanti di Kafka, oltre il sosia e il giocatore di Dostoevskij, l’umano di Mattioni ha perso il nome, la memoria, molto di più dell’infanzia: le parole e le cose. Nonché le città, le nazioni, i capipopolo…

Nel romanzo non c’è nessuna semiologia del sé e nemmeno degli altri. Il bandolo della matassa è composto di fili errabondi, annodati in modi indistricabili. Ciascuna frase è in bilico fra l’esistenza e l’inesistenza, anche di sé con gli altri. Entrambi partecipano al privilegio del potere, sebbene il profitto sia ideale, fantasmatico. Ma Giorgio Di Giorgio (nome del nome: presunzione incredibile, inimmaginabile) è l’unico candidato al posto dell’autarca, che nulla esclude sia artefatto come lo stesso unico candidato.

E la storia è un palinsesto di molti strati: a ciascuno di leggere quel che gli spetta! La “teoria” del potere, che potremmo astrarre dalle vicende del Partito che “salva” l’uomo di nessun colore, è ancora più intensa e forte di quelle di Orwell o di Canetti o di Freud.

Il palinsesto non ha luogo. Nessuno strato ha un sostrato. Nessun punto è fisso. Nessun luogo del potere “cattivo” giustifica un presunto potere “buono” degli altri. E resta il protagonista, che non ha nemmeno più nessuno da imitare.

Potremmo anche chiederci per davvero come vive uno dei tanti sosia di Putin o come sono vissuti i tredici sosia di Saddam Hussein. Uno scrittore di scuola americana costruirebbe un romanzone di mille e cinquecento pagine in tre volumi e quasi esaurirebbe la questione. Altra è qui la via di Stelio Mattioni: una densità estrema, una lingua chiara, senza ombra dinanzi, e che tuttavia non toglie nessuna difficoltà al lettore. Il lettore entra nel viaggio linguistico e non sa dove approderà. Nulla di misterico, come nelle short stories della Bibbia. Poche righe per un’esegesi infinita. Eppure quanti insegnamenti!

Trieste è una città planetaria, una città del sogno, una città che custodisce ciò che resta. E l’opera di Stelio Mattioni prosegue nel suo folle volo. La sua scrittura non ha nulla di provinciale. Il modo in cui debutta il romanzo con l’assenza delle coordinate standard dello spazio e del tempo, del buio e della luce, è l’esca per ciascun lettore d’intraprendere un viaggio in direzione della qualità assoluta.

 

Noterella

Avevo concluso un cenno delle note in margine all’opera di Stelio Mattioni e del suo libro Di sé con gli altri, e m’imbatto nell’articolo di uno dei più lucidi e precisi analisti del “caso” Putin, il teologo Stefano Caprio, che nel sito AsiaNews nella rubrica “Mondo russo” scrive: «Il patrono Nikolaj Patrušev e il destino della Russia nel ‘Putin congelato’». È questione dell’autarca russo dato per morto da alcuni e sostituito da vari sosia, per altri “congelato” nei suoi bunker per motivi sanitari o semplicemente di sicurezza, tanto da essere ormai chiamato “l’uomo del frigorifero”. La forza profetica di Stelio Mattioni è andata oltre i fenomenologi del sosia. Il sosia ha sostituito quell’uno di cui sarebbe la copia. E il sospetto dilaga: ognuno si autosostituisce come sosia di se stesso, e quel “sé” è senza memoria e con un nome posticcio. E come ottiene questo, l‘”attante” Giorgio Di Giorgio? Facendo ciò che l’altro vuole, che è diventato ciò che egli vuole. Persino la coscienza, questa nozione misterica, è andata oltre: la coscienza di Giorgio è a un passo dal dissipare anche la coscienza di Zeno.

 

Stelio Mattioni, Di sé con gli altri, Vydia editore, 2018, pp. 146, € 13,00

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L'amaro apologo di un uomo senza memoria

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