Il cielo d’Africa fa fare strani pensieri

(L’origine dell’opera di Stelio Mattioni)

Molti sono i rivoli che confluiscono nella scrittura di Stelio Mattioni, più di quanti sembrino in apparenza – uno specchio riflesso e riflettente. C’è però un tema che ricorre e che determina la tensione che attraversa tutta la sua opera: il tema dell’ineluttabilità di quello che è. Inutile pretendere di non avere avuto dalla vita quanto forse ci si meritava, perché la vita è, concetto massimamente espresso nel suo romanzo più noto e più apprezzato dalla critica Il richiamo di Alma (Adelphi, 1980). Non è affatto una premessa metafisica, si direbbe piuttosto che i suoi personaggi non hanno possibilità epifaniche. Appartengono al vortice del quotidiano che esprime il “malessere”, non inteso tout court come il celebrato male di vivere dell’esistenzialismo, perché identificare le vicende narrate nei romanzi di questo autore con il male di vivere sarebbe negare all’opera stessa una gamma di valenze: se infatti dimenticassimo questa premessa, finiremmo con il parlare di un ambito sempre più chiuso. Saremmo costretti a usare un metro convergente anziché aprire, e ridurremmo così a cronaca il mondo sotterraneo nel quale si agitano, senza possibilità alcuna, umanità sacrificate a se stesse.

È veramente essenziale che ci sia dibattito intorno a un autore - non intorno a qualcosa di già detto o già avvenuto - un dibattito che non sia una celebrazione ma una scoperta, ad esempio una nuova lettura di testi non abbastanza, o persino mai, letti. Ed è un fatto che Mattioni, che si inserisce senz’altro nell’effervescente letteratura triestina del Novecento, alimentata da tutte quelle culture incrociate che hanno fatto di Trieste uno dei poli più vivi della cultura europea, e che però ha prodotto un’opera del tutto particolare, che assomiglia molto alla realtà – e al suo dolore – e nello stesso tempotende a diventare il doppio di quello che vuole rappresentare, ad oggi è un autore misconosciuto. Una scrittura, la sua, senza narratore, e sempre attuale.

In tempi di scrittura facile, di presunti profeti e di falsi scrittori, non è un contributo da poco.

Lettera di Stelio Mattioni a Luciano Foà, uno dei fondatori dell’Adelphi insieme a Bazlen e Olivetti, del 10 maggio 1992:

“Il fatto è che quello che scrivo segue sempre passo a passo le mie reazioni a quello che mi circonda, e non intendo tradire me stesso. Per me lo scrivere non è mai stata una professione ma una ricerca personale”. Dunque Mattioni conferma che la scrittura è sempre scrittura dell’esperienza, ciò che entra nella vita entra nella scrittura. Quello che chiamiamo talento è la capacità di rielaborare in modo originale e unico gli accadimenti che si incontrano e si attraversano.

Questo spiega perché il salto da scrittore dilettante a scrittore pubblicato avviene grazie all’incoraggiamento e al sostegno di Bobi Bazlen. Perché Bazlen, geniale scopritore di talenti, lettore impareggiabile per Einaudi prima, poi ideatore e fondatore insieme a Luciano Foà, come poco sopra ricordavamo, della casa editrice Adelphi, aveva una specie di “ossessione” scrive Anna Ferrando nel suo saggio Adelphi. Le origini di una casa editrice (Carroccio, 2023), per i libri che raccontano un’esperienza, la singolarità di un pezzo di vita vissuta, e che sono pertanto libri “unici”. Tanto da progettare per la nascente impresa, una collana che avrebbe dovuto chiamarsi appunto “Libri unici”, e che poi è di fatto diventata la collana “Biblioteca Adelphi”. Su questo non c’è dubbio, il nostro autore, nelle varie fasi di vita e di scrittura, si è sempre guardato intorno e da lì nasceva tutto. Annotava puntualmente gli incontri e gli eventi rilevanti. Osservava situazioni e persone, curioso della vita e degli altri. Al punto che tutti i suoi personaggi sono persone realmente esistite e incontrate, a cui, chi gli è stato più vicino, potrebbe assegnare una precisa identità. Nel racconto trasfigurata, come deformata attraverso una lente d’ingrandimento, e presa in vicende simboliche.

I simboli disseminati nei libri di Mattioni sono un richiamo attraverso cui i lettori possono cogliere il nucleo del racconto. Un critico, tanti anni fa, scrisse che i suoi romanzi sono come una cipolla: bisogna sfogliarla per arrivare al centro e al succo. Partiva sempre da un’idea, da un nucleo, non pensava mai al racconto in superficie, così ha dichiarato in tante interviste. Perché di fondo l’atto creativo non è mai voluto e non è mai cosciente.

Altro tema importante è quello della libertà, qualcosa che nella nostra realtà non esiste se non come aspirazione, è quindi un punto vuoto a cui l’uomo tende. Ma ogni tentativo di evasione immancabilmente fallisce, con un ripiegamento inevitabile, con un rientrare negli schemi, pena la perdita di essere uomo. Questo ci serve da aggancio per introdurre un testo ancora inedito che è importante per vari aspetti, non ultimo quello di costituire la genesi della sua narrativa.

“Gli straccioni lasciando la città hanno iniziato un viaggio che chissà se è un ritorno...”. Usciti dal reticolato, lasciata la città costruita per rinchiuderli, gli straccioni sognano finalmente la libertà, ma è un’illusione, perché al di là del reticolato di ferro c’è un reticolato mentale.

Chi sono gli straccioni che abitano le case-tenda? Tra il 1949 e il 1952 Mattioni recupera un quadernetto che aveva scritto a matita, alla fioca luce di un lucernaio, per lo più seduto su una branda, in un campo di prigionia inglese in Egitto alla fine della seconda guerra mondiale.

Il 28 febbraio 1941 viene richiamato alle armi e mandato come allievo caporale in Croazia; il 10 aprile 1941 è sottoufficiale a Pola, poi a Pisino, Casagiove (Caserta), Livorno, Forte dei Marmi, Noci (Bari). Nell’ottobre del 1942 partenza per Tripoli, e da qui inviato a El Alamein. Dopo la ritirata dell’esercito italiano sul fronte di Al Mareth, viene fatto prigioniero dagli inglesi a Uebi El Akarit e rinchiuso in un campo di concentramento con il numero di matricola 373316. Questo, in sintesi, il curriculum militare, che si conclude con la Liberazione, e l’assegnazione della Croce al Merito di guerra.

Quando dunque, a vent’anni scarsi, viene richiamato alle armi dal Regio Esercito dell’Italia mussoliniana, fresca del patto d’acciaio con la Germania, e catapultato in una realtà tanto sconosciuta quanto difficile, prende da subito, fin dalla partenza del treno che lo avrebbe portato al fronte, ad annotare a matita sul piccolo quaderno sul cui frontespizio sta scritto la parola “Naja” tutto quello che lo circondava. La sua destinazione è Iskra, in Croazia.

Appena arrivato: “Mi accingo a scrivere della mia vita militare, un campo vergine agli occhi della mia attenzione in cui le miserie della vita umana vengono rivelate in tutta la loro cruda verità. Forse non è miseria, è solo vita, ma è pure vero che la vita non la conoscevo, e ora a contatto diretto con essa mi sento atterrire.

Sono a Iskra, a 4 km dal confine jugoslavo, la gente del villaggio ci guarda con ostilità e la natura stessa con gli alti monti nudi di vegetazione e grigi di tristezza sembra gravare sulle nostre giovani spalle come una cappa di piombo. Siamo venti, e siamo studenti” (Naja, 1 aprile 1941).

La sua prima prova da scrittore si può dunque fare risalire al tempo di guerra. Mattioni è stato tra i giovani italiani di leva mandati allo sbaraglio in Africa del nord, in equipaggiamento leggero, casacca e scarpette di tela con la suola di cartone, dalla superficialità e dalla megalomania di Mussolini.

Ha dovuto affrontare la tragica spedizione di El Alamein, uno degli episodi più drammatici del conflitto, fuori da ogni retorica della guerra, di cui inspiegabilmente si è parlato troppo poco. E dopo l’inevitabile disfatta, per i sopravvissuti, la terribile esperienza della prigionia. Esperienza che Mattioni condivide con Berto e Tobino ( “Ma non li ho mai incontrati” disse in un’intervista “so che Berto era passato per il mio campo un mese prima di me”), che poi hanno lasciato due dei pochi scritti su quella battaglia storica, “Guerra in camicia nera” il primo e “Il deserto della Libia” l’altro.

La prigionia è una condizione umiliante per un soldato. “Il deserto è un posto maledetto, di giorno si crepa di caldo e di notte si muore di freddo, ma che cielo però!, mai visto da nessun’altra parte. Il deserto ti frega, pensieri strani ti fa fare...” fa dire al suo protagonista (il sergente interpretato da Pierfrancesco Favino), il regista Paolo Briguglia nel suo film del 2002 “El Alamein – La linea del fuoco”.

Dopo la Liberazione, il quadernetto con gli “strani pensieri” di Mattioni verrà più e più volte ripercorso e revisionato, un’operazione meticolosa e catartica, stimolandogli riflessioni personali e storiche rielaborate prima in qualche racconto – Vita da cani (pubblicato su “Il Piccolo” il 27 maggio 1958); Caccia abbastanza grossa (idem, 30 ottobre 1958); e infine Una città di straccioni (idem 22 gennaio 1959) - per prendere poi un respiro più ampio e diventare un romanzo intitolato Camàn (storpiatura del “come on” con cui i carcerieri inglesi apostrofavano i prigionieri in fila per il rancio ad avanzare, un serpente di straccioni con i peli pitturati di giallo, una scodella e un cucchiaio in mano, le braccia gonfie e gli occhi già lucidi di febbre), tuttora inedito come si diceva.

Una preziosa cronaca di prima mano in cui gli innesti fantastici e surreali rivelano la matrice di tutta la successiva opera dell’autore. Da un’epoca drammatica, da un’esperienza devastante, nasce una fabula che è anche un racconto aderente alla realtà, dunque una testimonianza storica ma senza il pathos che ci si aspetterebbe, piuttosto un racconto fantastico che attraverso gli incontri tra simili, luoghi e animali, diventa un catalogo dei lati oscuri dell’uomo, che in un contesto duro si rivelano in tutta la loro potenza.

Dal racconto Caccia abbastanza grossa:

“Il recinto nel quale vivevamo veniva chiamato cage, che vuole dire anche pollaio, non perché fossimo polli, ma perché forse potevano avere anche il diritto di tirarci il collo. Due volte al giorno venivano a fare l’appello, e una volta vennero tre. Lo fecero durante la notte e siccome uno di noi mancava, gli inglesi si mostrarono duri e mandarono a prendere i cani. I cani, aizzati, incominciarono subito a correre lungo i reticolati con il muso a terra e gli occhi iniettati di sangue. I cani, scorgendolo, si avventarono su di lui lasciando brandelli di carne e ciuffi di pelo nei reticolati, C’era un urlo nelle nostre gole chiuse dallo spavento”.

Da Vita da cani:

“Campo 306, reticolati in Egitto, siamo tanti anni fa, ed è finita anche per noi. Ci cerchiamo con la voce per paura di essere dimenticati; e quell’uscire verso un’Italia nel frattempo divenuta ignorata è un fatto che toglie il sonno e ci stringe tutti insieme”.

Da Una città di straccioni:

“Anch’io vorrei raccontare la storia di una città; ma a che serve se la mia fu costruita in un giorno, quando già si sapeva che in un giorno sarebbe scomparsa? Eppure, per quanto ora non ci sia più nemmeno nel ricordo dei suoi abitanti, parlandone si capisce che non è tanto remota da ritenere impossibile che esista tuttora. È una città costruita in un quadrato di cento metri di lato; attorno ad essa corrono il filo spinato, pali che paiono forche, tanti occhi intenti a spiare di sopra i fucili spianati. Il cielo la copre come una calotta azzurra o nera, nel mentre il tempo veste e sveste di licheni le rocce, le sue strade sono strette e nelle case si entra solo scendendo quattro gradini. (…) Nella calma delle sere stellate, nelle case arde un piccolo lume giallo e fumoso attorno al quale gli straccioni sembrano ombre e fantasmi tanto si muovono con cautela per non urtarsi tra loro. Hanno due metri quadrati ciascuno per muoversi, e per riposarsi un giaciglio che poggia su quattro bottiglie a causa degli insetti che di notte potrebbero assaltarlo, e sopra di esso, un sacchetto di pane che dondola a ogni soffio di vento, culla la loro fame di uomini magri come libellule”.

Tornato dunque in una Trieste sotto il governo temporaneo degli Alleati nel 1946, incomincia la lunga manipolazione degli appunti durata quasi cinquant’anni - una prima stesura nel 1949, una seconda nel 1985 e infine la terza e definitiva del 1997.

“Ho pescato fra le mie vecchie carte un tentativo di libro di ricordi, credo risalente al ‘46 o ‘47, naturalmente inedito, intitolato Camàn e piuttosto astratto” scrive in Memorie di un fumatore (MGPress, 2009).

I temi subito evidenti nel testo sono la ricerca di un varco e il cercare senza trovare, che sono elementi costanti nella vita dell’uomo, in qualsiasi epoca e in qualsiasi circostanza, perché la vita così com’è è penosa o insufficiente, insomma, la vita non basta. E l’uomo cerca, cerca, continua a cercare un senso che non trova.

Da Camàn:

“Ogni mattina mi alzavo all’avvicinarsi dell’alba per ascoltare il deserto al di là del reticolato. I reticolati correvano da est a ovest e viceversa con una continuità che non ammetteva varchi ma permetteva di sentire le distanze, l’esistenza in qualche luogo di città più durature di questa in cui ero, costruita per creare l’illusione di un pieno nel vuoto. (…) Camminavo lungo il reticolato in cerca di carta scritta. Mi auguro che ben pochi sappiano cosa significhi stare chiusi in una città fittizia come quella nel deserto e non avere notizie, non poter comunicare con altri che quelli con cui ci troviamo. Quando si è in questa situazione si ha l’impressione di essere non nati, sapendo che non è vero, perché si ha nella memoria una vita anteriore in cui tutto quello che si è fatto lo si è lasciato incompiuto, riguardo sia le cose sia le persone.

Un giorno incontro un vecchio, magrissimo e rigido, che scava una buca nella sabbia.

“Gli chiesi: cosa fai?

Non vedi che è sabbia – rispose. - Non cerco niente se proprio lo vuoi sapere. Nella mia lunga vita ho cercato, ho cercato, ma sempre come nella sabbia, senza trovare che della sabbia”. (da Camàn, inedito).

Metafora della vita di ciascuno! Frequenti nel racconto gli innesti surreali, che diventeranno in seguito uno dei tratti distintivi dell’autore. A partire dai nomi degli straccioni: Tutti, Però, Quando, Allorquando, Sospiro, Lamento, Andò... E principalmente alcune delle storie raccontate, come la lotta contro il fumo di Maggio e Aprile; la competizione tra gatte per diventare la preferita del campo; il processo a Pollo, un pollo appunto, protetto da Tutti, “uno scavezzacollo, uno screanzato che detestava gli orti, beccava il sedere a chi prendeva il sole, correva dietro a tutte le galline con la sua testa vivacissima, il suo collo spelato, il suo corpo smilzo e sudicio”, con il risultato che gli altri straccioni volevano tirargli il collo: “A morte!” esplose il popolo. Ma ecco arrivare di corsa un bastian contrario: “Il pollo deve essere prima giudicato. Ora, chi altri può giudicare se non i giudici?”.

Segue il racconto del processo, con tanto di giudici, difensori, detrattori, arringhe e sentenza che a leggere neanche tanto tra le righe risulta una parodia del mondo giudiziario; la descrizione delle riviste teatrali messe in scena dagli straccioni su un palco improvvisato, spettacoli in cui comparivano di regola i tori, il Vesuvio e le ballerine, in quel caso dotate di polpacci pelosi, spalle larghe e vocione che, scese dal palco, portano i seni in mano come cartocci di caramelle.

Ed ecco dove Camàn si rivela essere la acerba ma potente matrice di una delle caratteristiche peculiari dell’arte successiva di Mattioni. Il cogliere quel mistero della vita che si avverte dietro le cose, le facce, gli sguardi e lo scorrere monotono del tempo, indice che è solo una delle realtà possibili. Il cogliere una realtà “insieme surreale e precisa” come ebbe a scrivere Claudio Magris, che allude a presenti alternativi che interferiscono nella nostra vita.

Ha detto Alessandro Mezzena Lona: “Mattioni quando scrive, come ogni artista nell’atto di creare, diventa medium. Capace di abbattere le pareti del nostro mondo con uno strumento potentissimo: la parola” (A. Mezzena Lona in Atti del convegno Breve viaggio nel mondo di Mattioni, Trieste, maggio 2003). E poi l’interesse per i lavori “a intreccio”, ovvero narrazioni in cui attorno a un nucleo centrale, le diramazioni di contorno e di contralto e le vicende secondarie vanno a rifinire ed esaltare la traccia iniziale, e aprono a diverse soluzioni. Sarà così anche nei suoi principali romanzi, Il Re ne comanda una, La Stanza dei rifiuti, Il Richiamo di Alma e altri, in cui in uno spazio chiuso, il moltiplicarsi delle storie tratteggia la complessità della natura umana e della vita.

Un campo di concentramento, anche se costruito nel deserto, anche se a cielo aperto - e che cielo! -, è pur sempre un luogo chiuso, che contiene varia umanità e da lì parte l’interesse di questo autore per l’altro, nel tentativo di capire l’uomo com’è e la vita che cos’è, molla costante della sua scrittura.

Già in Camàn balena l’intuizione che la vita del singolo è un viaggio verso una meta mancata, un viaggio in cui partenza e arrivo sono sostanzialmente coincidenti, tanto, come ebbe a dire Francesco De Nicola, da richiamare i versi di Giorgio Caproni: “Se non dovessi tornare/sappiate che non sono mai/partito”. In Mattioni, cercare un senso alla nostra parabola umana si lega al desiderio di libertà intesa, in assoluto, come evasione dalla vita stessa. Tutto il nostro daffare, che senso ha, se tutto sembra finire in fumo? Tutto il nostro cercare di capire che senso ha, se è come scavare nella sabbia senza trovare niente? Qual è la libertà a cui aspiriamo? Se in vita è un’illusione, dopo la vita cos’è? Resta il mistero. Ecco perché per capire Mattioni e le sue tematiche sarebbe importante leggere questo testo, che però incontra molte difficoltà di pubblicazione, probabilmente per un discorso commerciale che l’editoria oggi è costretta a fare. Importante perché da lì incomincia a formarsi l’idea, sempre più rafforzata nei libri successivi e nella stessa vita dell’autore, che l’unica libertà inviolabile va cercata in un posto che sta dentro di noi. Nel suo caso, un’accesa fantasia nata dall’infanzia favolosa e da una gioventù, suo malgrado avventurosa, che sfocia nella scrittura.

Con che risultato? Con il risultato che almeno ci resta la letteratura come testimonianza, per appunto dare un senso alla nostra comune e tormentosa ricerca di capire.

Prima pubblicazione sulla rivista brasiliana “Mosaico”

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L'amaro apologo di un uomo senza memoria